Primo levi, con il suo “I sommersi e i salvati” ci consegna un testo pieno, abbagliante e incredibilmente profetico. Oltre a essere una delle testimonianze più lucide e importanti riguardo le atrocità del nazismo, questo libro è un documento e un manifesto che lo scrittore proietta al futuro.
Molti potrebbero accingersi alla lettura dell’ultimo volume di Primo Levi con la foga di conoscenza che anima l’appassionato di storia e in particolare, degli eventi tragici che hanno puntellato la Seconda Guerra mondiale, insomma, un’altra spietata radiografia del Lager, un “sequel” o, considerandolo erronaeamente, un epigono del capolavoro di ogni tempo “Se questo è un uomo” e di altri libri fondamentali sui campi di annientamento nazisti, “L’inferno di Treblinka” del giornalista sovietico Vasilij Grossman.
“I sommersi e i salvati” non è un compendio sul sadismo degli aguzzini tedeschi e austriaci, i protagonisti non solo soltanto le guardie dei centri di sterminio e i deportati, quelli che sono stati disumanizzati, gassati e infine bruciati, no, i protagonisti di questo straordinario libro, siamo noi.
Noi, gli abitanti di quella che sapientemente Primo Levi definisce zona grigia, quell’enorme banco di nebbia in cui vivono collaborazionisti di diversa natura, persone che traggono profitto dalla guerra, chi sta comodo nelle proprie “tiepide case” o chi, per paura, sceglie di starsene in disparte.
Ed è proprio la paura l’emozione che tormenta Primo Levi in “I sommersi e i salvati”, il terrore che tutta quella ineffabile sofferenza e l’indescrivibile tragedia che lui e altri hanno vissuto non serva a nulla, venga cancellata con un enorme colpo di spugna dal tempo, dai nuovi governi, da una società che si trasforma ed evolve.
Purtroppo, le previsioni di Levi si sono avverate: le tragedie del passato non sono un monito affinché certi orrori non si ripetano più, bensì peggio: sembrano essere diventate una scusa per coltivare un nuovo male che sta infestando sempre più prepotentemente il mondo di oggi.
La zona grigia è quella foschia spessa e buia da cui emergono cronache ingannevoli e propagandistiche che condizionano le coscienze di tutti noi.
Oggi la memoria dei massacri del passato pare distrutta. I suoi frammenti perdono consistenza, si polverizzano per formare una calce nuova a sostegno di un mondo dalla dubbia configurazione.
Ora esiste solo la narrazione del male contro il bene, un bene che finanzia in modo più che massiccio il leader egomaniaco ucraino per combattere la guerra allo psicopatico Zar russo in un conflitto inteso come strumento salvifico della libertà (?) europea, per non parlare poi dell’altro fronte, quello mediorientale, all’interno del quale lo sterminio continuo di civili palestinesi viene raccontato come guerra al terrorismo islamico.
“Essere ebrei ed essere contro Israele” è il titolo di un articolo uscito sulla rivista Lucy qualche giorno fa. Un titolo importante, che pone l’accento su una questione che sembra andare contro la storia della religione ebraica e la sua memoria.
Proprio Primo Levi sostiene che la memoria sia l’unico strumento capace di resistere agli urti del tempo, un attrezzo importante per costruire un futuro diverso. Ma adesso quella memoria così preziosa e unica viene quotidianamente violentata e mistificata per interessi politici. Oggi comanda la soluzione manichea e il nazionalismo, uno dei tanti cancri moderni.
La scrittura di Levi sovente è stata considerata fredda, di dubbio valore stilistico, ma è tutto il contrario: la sua prosa è frutto di una precisa scelta espressiva. Il chimico torinese sosteneva con forza di non poter credere in nessun Dio dopo la sua esperienza ad Aushwitz. Si è sempre dichiarato un uomo di scienza e come tale, ha sempre cercato di analizzare e raccontare la tragedia utilizzando un’ottica scientifica, non deformata, priva di sentimentalismo esasperato proprio perché il campo di sterminio era il regno della disumanità.
Tutta la sua opera è una continua analisi del blackout, del cortocircuito che ha condotto l’umanità verso il baratro. Nei suoi testi non emerge alcun credo religioso, non esiste alcuna contaminazione politica, c’è l’essere umano, la sua provenienza, la sua anima a volte forte, a volte debole, i sommersi e i salvati per l’appunto.
Negli ultimi tempi, l’arte ha preso direzioni diverse nel racconto delle atrocità naziste, puntando la lente di ingrandimento proprio sulle persone che stavano in mezzo ai due estremi, pensiamo solamente a film come “La zona d’interesse”, opera cinematograficamente discutibile, ma di forte efficacia, oppure a “Il figlio di Saul” di qualche anno fa.
Non occorre arrivare al Lager. Il campo di concentramento è il compimento massimo, la cuspide, la fase terminale di un’infezione che ha già necrotizzato le nostre menti e le nostre anime. Prima del Lager c’è la sopraffazione e la violenza, c’è l’annullamento della diversità e dei diritti altrui: dolori e violenze che abbiamo davanti a noi ogni giorno.
È la materia che sta al centro dei due poli quella più malleabile, ed è compito nostro fare in modo che la memoria del dolore e l’eredità di Primo Levi, non vengano cancellate.
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